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Roma 17/03/15, fontana delle Naiadi in Piazza della Repubblica, vista in direzione dell'imbocco di via Nazionale. Fontomontaggio con Totti che sembra indicare una delle statue della fontana

Roma, 17/03/2012. Fontana delle Naiadi in Piazza della Repubblica, vista in direzione dell’imbocco di via Nazionale. Fotomontaggio, con Totti che sembra indicare un dettaglio dell’architettura circostante

Il 28 marzo del 1993, me lo ricordo bene. C’era il sole, la temperatura era gradevole.
Quella domenica pomeriggio mi ero presentato, in sella alla mia bicicletta, nel cortile sotto casa di una giovane e bella fanciulla. Che solo qualche giorno prima, sfoggiando uno di quei sorrisi a cui non si può dire di no, aveva cinguettato che un giorno di quelli le sarebbe piaciuto fare un giro in bici.
Con me.
Io ero giovane e ingenuo, e l’avevo presa in parola. Terribilmente ingenuo, se si pensa che contavo 22 anni e avevo fatto il militare a Cuneo, la mia città natale. Insomma, sarei già dovuto essere un uomo di mondo, come Totò.
Ed essere in grado di capire che, se una giovane e bella fanciulla di diciassette anni, che da quando ne ha tredici è la più desiderata del quartiere e forse di mezza città, ti dice – sorridendo con gli occhi emozionati – che un giorno di quelli le piacerebbe fare un giro in bicicletta insieme a te, quel che davvero ti sta dicendo, è che tu, maschietto barbuto intelligente e militesente e anche belloccio (perché, diciamolo, a quell’età ero davvero carino, solo che non me ne rendevo conto e ancor meno ne sapevo approfittare) non le dispiaci affatto, e gradirebbe un tuo entusiastico e concreto riscontro in quel preciso istante, lì, sui due piedi.
Ti sta dicendo che hai il permesso di baciarla. Anzi, che lei non solo se lo aspetta e ti sta aprendo, per così dire, una linea di credito, ma che lo desidera pure. Poi, se è soddisfatta della tua risposta al suo gradimento, un giro in bici con te, uno di quei giorni, se lo fa anche volentieri. Ma è del tutto secondario.

Io, ahimè, questo non detto fra le righe non lo capivo. O meglio, lo avrei capito solo più tardi, riflettendo sulle spiacevoli conseguenze del mio prendere, di primo acchito, le cose alla lettera.
Perché quella domenica pomeriggio scoprii, con un rammarico pari alle gioiose aspettative con cui mi ero presentato al suo cospetto, giacché la fanciulla mi piaceva da matti, anzi era (quasi) il mio unico pensiero, che ormai era tardi. Che lei non aveva più voglia di uscire; forse mi disse che aveva già un altro impegno, ora non ricordo.
Insomma, avevo perso l’occasione. L’avevo mancata alla grande.

E così, il giro in bicicletta me lo feci da solo, schizzando via a razzo da quel cortile, e mettendomi a pedalare come un matto non appena raggiunta la statale. Il percorso mi portò a superare un cavalcavia, che affrontai con lo stesso furore che se avessi dovuto scalare il Mortirolo. Un chilometro più a valle girai la bici e lo affrontai di nuovo nell’altro verso, precipitandomi lungo il rettilineo da cui ero arrivato poco prima, aumentando sempre di più ritmo e velocità. Non ho idea di cosa possano aver pensato, i rari automobilisti di passaggio, vedendo questa specie di invasato che pedalava furiosamente, come se si fosse messo in testa di infrangere il muro del suono con una bicicletta. A un certo punto, credo di aver superato il record sul chilometro lanciato senza rendermene conto. Erano tante le cose di cui non mi rendevo conto, in quegli anni. Una di quelle era che, se avessi continuato così ancora per un minuto o due, mi sarei fatto venire un collasso. Per fortuna, un retrogusto di ruggine che mi stava salendo in gola, oltre al fatto di avere ormai i polmoni in fiamme, mi indusse a rallentare l’andatura, e a procedere d’inerzia, senza più pedalare, fin quasi a casa.

Ricordo che in casa non c’era nessuno, i miei erano andati da qualche parte. Così non videro la mia faccia arrossata e stravolta, il respiro affannoso salendo le scale, l’andirivieni da tigre in gabbia con cui misuravo la lunghezza del soggiorno a passi rapidi, prima in un verso e poi nell’altro e poi di nuovo, per cercare di calmare l’adrenalina che avevo ancora in corpo.
Un’occhiata all’orologio mi avvisò che erano le 6 passate, ora di Novantesimo minuto. Bene, se c’era una cosa che mi poteva distrarre, era la Roma.
Che, appresi con inaspettato giubilo, quel giorno aveva vinto in trasferta.
A Brescia, un campo di solito ostico. 2-0 con reti di Caniggia e Mihajlovic.
Chi, Sinisa? Proprio lui. Che sarebbe poi diventato un simbolo laziale, ma in Italia ce l’abbiamo portato noi.
Ricordo bene quel giorno, e quel risultato. Ciò che non ricordo, e mentirei se affermassi il contrario, è di aver registrato un passaggio di cui, sono certo, il telecronista che curò il servizio di quella partita non mancò di dare conto. Perché su una cosa a 90° minuto erano puntigliosi: menzionavano le sostituzioni di ciascuna squadra, a volte mostrando anche il momento del cambio. In rete non ho trovato un contributo video di quell’occasione, in compenso ho recuperato una chicca radiofonica:

Il dettaglio di cui non ho conservato memoria, di quella domenica pomeriggio della quale ho così tanti e vivi ricordi, è della cosa più importante che successe, quel giorno, nei minuti finali di Brescia-Roma. Una cosa che ormai tutto il mondo conosce: fuori Ruggero Rizzitelli, dentro un ragazzino di 16 anni di cui si diceva un gran bene. Un ragazzino biondo con gli occhi azzurri, romano de Roma, quartiere San Giovanni.

Mentre io pedalavo come un matto per sfogare la mia frustrazione amorosa, Francesco Totti aveva fatto il suo esordio in Serie A. E anche se in quel pomeriggio non lo sapevo e non me ne rendevo conto (tra le tante altre cose di cui allora non mi rendevo conto), da lì in poi avrei avuto il privilegio di ammirare tutta la sua carriera. Una carriera che, 22 primavere più tardi, ora che ho il doppio degli anni che avevo allora, non è ancora finita.
Avrei assistito partecipe, con affetto ed emozione, non di rado di persona, a tutte le sue giocate straordinarie, tutti i suoi goal, ai momenti felici e a quelli tristi, alle lacrime di dolore e quelle di gioia.
Avrei imparato a riconoscere ogni suo gesto, anche da lontano, ad apprezzare e amare l’uomo prima ancora che il calciatore immenso. A pensare a lui come a uno di famiglia, a un cugino, ma che dico cugino, al fratello che non ho.

Oggi Francesco compie 39 anni, e ho messo insieme in ordine sparso un po’ di immagini della sua carriera (40 in tutto, una per ciascuna candelina, più un bonus personale che gli ho scattato io, quando non era ancora capitano), per omaggiarlo scorrendo i fotogrammi di alcuni di quei momenti. In molti dei quali ero presente anch’io. Come il 17 giugno del 2001, quando con un destro al volo aprì le danze contro il Parma, nella partita che ci avrebbe consegnato uno strameritato scudetto. Io c’ero, all’Olimpico, quel giorno. Da abbonato.
O come nel dicembre 2003, a Verona, il goal sblocca-risultato contro il Chievo, dopo il quale si rivolse ai tifosi della Roma, nel settore ospiti, battendosi con orgoglio la mano sul petto. Oppure, qualche anno prima, il 4 agosto del 1998, in ritiro a Predazzo, quando per la prima volta ebbi modo di incontrarlo, e di camminare alla sua destra, spalla a spalla, per un tratto di strada. Senza riuscire a dirgli nulla, né a scattargli una foto con la macchinetta semi-professional che avevo in mano, dopo che ci avevo provato mentre si era messo in posa su richiesta di una signora. Che però, una volta soddisfatta, lo attirò a sé per baciarlo su una guancia, proprio mentre io scattavo a mia volta. Così ottenni una gran bella foto della nuca di un Totti ventunenne 🙂

Nel ’94 Francesco segnò il primo goal in Serie A. Domenica scorsa, nella stessa porta, allo Stadio Olimpico di Roma, ha infilato la trecentesima rete ufficiale con la maglia giallorossa. La sua unica maglia. Che è anche la mia. Sono passati 21 anni da quella prima rete, l’arco di tre generazioni, e siamo ancora tutti qui a celebrarlo e parlare di lui. Basterebbe questo per dare l’idea della sua grandezza.

Ma, per quanto mi riguarda, c’è di più. Perché meno di nove mesi dopo quella domenica pomeriggio, cioè del giorno dell’esordio del mio Capitano infinito, ed esattamente l’8 gennaio del ’94, due giorni dopo l’Epifania, misi piede a Roma per la prima volta. Ed ebbi la mia, di epifania.
Non appena messo il naso fuori dall’atrio della Termini, al cospetto dei palazzi e del cielo di Roma, mi resi conto, in quel momento sì, con rara immediatezza e grato stupore, di una cosa grande, una cosa che se non l’hai provata non si può capire, e anche a tentare di spiegarla non si riesce a rendere l’idea.
In quel momento sentii di essere tornato a casa, dopo una vita trascorsa altrove. E da allora è un’emozione che ritrovo intatta, e che si accresce, ogni volta, ad ogni mio ritorno sul sacro suolo.

Per questo motivo, in apertura, ho voluto sovrapporre l’immagine di Francesco – in una posa in cui sembra quasi farmi da guida – a una mia foto di piazza della Repubblica e della fontana delle Naiadi. Perché è lì che, una volta uscito dalla Termini e attraversata piazza dei Cinquecento, fiancheggiate le Terme di Diocleziano e accarezzato con lo sguardo la facciata concava di Santa Maria degli Angeli, voltatomi dunque verso la prospettiva di via Nazionale, che si apre in mezzo ad un elegante emiciclo di palazzi e portici, e al cui altro capo si scorge il Vittoriano (e a metà circa della quale, ormai da anni, trovo confortevole e amichevole alloggio)… è lì, in quel preciso luogo, che Roma mi da il suo benvenuto. Che mi accoglie amorevole, con la fontana che saluta festosa il mio ritorno, e l’abbraccio dell’emiciclo che indirizza i miei passi verso il cuore della Città Eterna. Verso ciò che io chiamo casa.

Auguri, dunque, Francesco. Grazie per tutti i sorrisi, le emozioni, il divertito stupore, e le lacrime di gioia che mi hai regalato. E grazie per oggi, per avermi condotto lungo i sentieri della memoria; ricordandomi ancora una volta, e per sempre, che la tua casa è anche la mia 🙂