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Stadio delle Alpi, Torino, in un’immagine presa da qui.

(Riassunto delle puntate precedenti: in principio soprattutto fatica, alte pressioni e un dannato demone, tutto entro i confini di una sola regione).

Le mie trasferte di lavoro mi avevano portato a familiarizzare con la tangenziale di Torino. Con le sue uscite, con i rallentamenti e le code che (immancabilmente) si formavano, verso le otto di mattina e dopo le cinque del pomeriggio, intorno a quell’obbrobrio di ingegneria stradale – situato fra gli innesti di Corso Allamano e Corso Francia in direzione nord e di Savonera e Pianezza in direzione sud – che era lo svincolo per la Torino-Bardonecchia. Esempio più unico che raro, per giunta in uno dei punti più trafficati della regione, in cui si vedeva sovvertito un principio fondamentale di un’autostrada: non presentare incroci a raso.
(La tangenziale di Torino è a tutti gli effetti un’autostrada, ha perfino una sigla, A55; ma anche se si fosse trattato solo di una strada a scorrimento veloce, avrebbe fatto poca o nessuna differenza).

Prima che (alleluja) si intervenisse per realizzare una più consona bretella con svincolo a destra e allacciamento sopraelevato alla tratta verso ovest, in direzione val di Susa e Bardonecchia, in quel punto del tragitto si procedeva sovente a passo d’uomo per delle buone mezze ore, per quanta fretta uno potesse avere. Superato il punto critico, però, le volte in cui il lavoro mi richiedeva di proseguire verso nord giungevo in pochi minuti in vista dell’uscita per lo Stadio delle Alpi, che dopo le notti magiche di Italia 90 aveva sostituito il vecchio Comunale. La strada per arrivare fin lì mi era diventata così abituale, e in fondo semplice, che spesso, durante i fine settimana, mi veniva voglia di saltare in auto e andarmi a vedere una partita. E un paio di volte l’avrei fatto davvero, sarei andato da solo fino al Delle Alpi, di sera, a veder giocare la Roma. Conoscevo la strada, i dintorni dello stadio, i parcheggi, tutto. Ma questo sarebbe successo più avanti.

Peraltro, durante i fine settimana mi veniva voglia di saltare in auto e di andare ovunque, purché fosse; non di rado, era proprio ciò che facevo. Guidare di notte, senza una meta precisa, senza l’affanno di un lavoro da svolgere, di un appuntamento – o di una serie di appuntamenti – da rispettare entro l’arco di un determinato orario, mi rilassava.
A volte ripercorrevo le stesse strade che utilizzavo per raggiungere i miei clienti, ne provavo delle altre, studiavo i percorsi migliori. In un certo, nel mio (poco) tempo libero mi riappropriavo del territorio e dei suoi tragitti. Era un modo per scaricare lo stress, non solo dovuto al lavoro e al dover sottostare agli umori spregevoli del Demone Biondo, ma anche ad altri due fattori non trascurabili, che non saprei mettere in ordine di peso: il fatto di aver voluto tornare sui banchi di scuola, pur continuando a lavorare, e i rapporti in seno alla mia famiglia.

La prima delle due cose era motivata – con un’evidenza che già allora non mi sfuggiva – non solo dal desiderio di migliorarmi ma, soprattutto, di evadere in altre direzioni. Per un po’ ha funzionato, poi ha smesso di funzionare, ma a qualcosa è servito.
La seconda era storia ormai vecchia, una ciclica riproposizione di scontri fra posizioni insanabili.
In casa, in quel periodo, i litigi erano frequenti; sfuriate cosmiche, clima da guerra tribale. Era iniziato tutto quando, con autentico candore, avevo pensato bene di manifestare ai miei genitori il desiderio di cominciare a cercarmi un alloggio per conto mio. Mia madre era scoppiata a piangere implorandomi di non farla morire a quel modo. Mio padre mi aveva sorriso sprezzante dicendomi che, se si fosse trovato di buon umore, mi avrebbe lasciato uscire di casa con i vestiti che avessi avuto indosso in quel momento. Invece di accogliere con favore il mio intento di emanciparmi e di non pesare più sulle loro spalle (avevo un lavoro fisso e mi guadagnavo uno stipendio sicuro, ma a onor del vero non mi è mai stato chiesto di metterlo a disposizione o di contribuire alle spese di casa) si erano risentiti come se, in qualche modo, mi stessi comportando in maniera riprovevole, tradendo chissà quali loro aspettative.

Insomma, in gran parte di ciò che facevo, dicevo o pensavo allora – lavoro a parte – l’idea di evadere per sempre, o anche solo per qualche ora, costituiva una costante declinata in varie forme. O, potremmo dire, in molti tentativi diversi di andare oltre la Barriera.

Ed è qui che entra in gioco Anna.

Finalmente! penserai tu. Sì, ma non subito. Prima di parlare di lei c’è ancora una cosa che ti devo raccontare. Questione di numeri.

(segue)


CREDITS, NOMI E RIFERIMENTI:

Anna | La Barriera | Il Demone Biondo | Roma (associazione sportiva), daje sempre | Torino

e poi

Italia 90, ottima occasione per grandi speculazioni edilizie.

“Macinavo chilometri” si rifà a un celebre coro da stadio dei tifosi romanisti.

Stadio Comunale di Torino, ora riammodernato e ribattezzato in modo più consono alla storia del calcio, non solo cittadino.

Stadio delle Alpi, celebre cattedrale nel deserto, ora demolita e ricostruita in scala ridotta. Sempre nel deserto.

Tangenziale di Torino, meno celebre del GRA, anche perché conduce in luoghi decisamente meno interessanti.

Torino-Bardonecchia, un posto magico, specie se ci dovevi arrivare da Torino negli anni ’90, durante le ore di punta. Il concetto di “traversata” è stato riscritto in quel luogo, in quel tempo.