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Bruno Peres in azione con la maglia della Roma, in una foto presa da qui.

(Riassunto delle puntate precedenti: so stati anni difficili, si lavorava e si faticava non poco, ogni tanto qualche sorriso e un bagno di folla “in famiglia”.)

Aggiungo invece altre cose riguardo al periodo in cui indossai le vesti di caregiver, perché vale la pena raccontarle. In primo luogo, la situazione di mia madre, seppur spiacevole e complicata, ci diede modo di recuperare un rapporto ormai deteriorato da tempo e che, dunque, rifiorì e rimase tale fino alla fine.

Che lei, mia madre, fino a che è stata bene era una vera rompicoj[ehm] e ogni due per tre mi veniva voglia di mollare casa mia e trasferirmi tipo a Bolzano. Poiché il fatto che io fossi andato a vivere da solo e badassi a me stesso in autonomia (tradotto: mostrassi di cavarmela senza problemi e senza aver più bisogno di lei), nonostante abitassi ad appena un piano di distanza, lei non era riuscita mai ad accettarlo.

Obbligata suo malgrado a rassegnarsi a una situazione di passività, si raddolcì, e in quell’anziana madre ritrovai quella più giovane, serena e spensierata che ricordavo da quand’ero bambino; quella che cantava mentre faceva i mestieri in casa, sempre la stessa strofa o ritornello, che altro non si ricordava;
ed è, questa, una cosa che adesso faccio anch’io, che di canzoni ne conosco a centinaia, ma i testi completi a memoria, quelli, me ne ricordo pochi;
ed è una cosa, questa mia di accennare un brano e di non saperlo poi continuare, che alla mia Lei, ex ballerina professionista ed esperta di canzoni e di cantanti, faceva molto ridere e per la quale mi prendeva sempre in giro.

Costretti per forza di cose a passare molto tempo insieme, mia madre e io, senza avere granché da fare, d’inverno ce ne stavamo nel mio studio a leggere, dopocena, seduti su poltrone affiancate. Lei una rivista o – per la millemillesima volta – una traduzione dei primi anni ’50 di In Famiglia di Hector Malot che le avevo procurato su eBay, dal momento che aveva molto amato guardarne la trasposizione a cartoni animati (a noi nota come Peline Story), al tempo in cui ogni canale TV che si rispettasse aveva il suo bel pacchetto di anime giapponesi, robotici e non. Mi ero anche procurato la serie in DVD, ogni tanto la accompagnavo a sedersi di fronte al mio computer e facevo partire la riproduzione; lei gradiva molto e una puntata sola non le bastava mai, ne voleva guardare almeno due o tre di fila, proprio come i bambini. E si divertiva un mondo, proprio come i bambini.
Terminata Peline passammo a Heidi, e dopo molte altre serie storiche di quel tipo finimmo in bellezza con Nadia e il mistero della pietra azzurra, che guardai anch’io insieme a lei, perché rientrava benissimo nel canone delle produzioni giapponesi che mi piace guardare anche ora, da mo che ho passato gli anta.

Nelle sere d’estate leggevamo sul terrazzo fino a che la luce del giorno lo permetteva, poi ce ne stavamo seduti su un divano a dondolo a osservare il tramonto e guardare i cani rincorrersi e giocare, noi seduti fianco a fianco e mano nella mano, loro dabbasso in giardino. Ogni tanto i cani alzavano il muso, ci scorgevano e si mettevano a scodinzolare contenti. Noi li salutavamo, lei con la sola mano buona rimastale dopo il grave malore di quel giorno nefasto, io con quella che non stringeva la sua.

C’erano poi altre situazioni ricorrenti, in cui io e mia madre stavamo fianco a fianco e mano nella mano, in circostanze a volte liete altre meno.
In occasione del suo primo ricovero, fra ospedali e cliniche, era capitato di doverle restare accanto durante la notte, ogni volta tenendola per mano. Dormivamo così, lei nel letto, io su una brandina. Capitò ancora in ulteriori periodi, per fortuna più brevi, in cui le fu necessario trascorrere un po’ di tempo in strutture di riabilitazione motoria, a seguito di problemi secondari e conseguenti di quell’altro, che ogni tanto insorgevano.

E poi, insieme, guardavamo giocare la Roma, cosa che prima non avevamo fatto mai. Anzi, poiché in clima partita io divento un grizzly, incito i giocatori, detto i passaggi, mi incazzo con l’arbitro e con gli avversari, ruggisco e tuono che paio ‘ninvasato, e lei dal piano di sopra mi sentiva ululare e ogni tanto mi diceva “spero sempre che la Roma vinca o non perda perché mi viene male a sentirti fare il matto in quel modo”, nel momento in cui abbiamo preso a guardare le partite fianco a fianco e lei si ritrovava in quelle condizioni lì, io mi son dato una regolata. Sono diventato molto più zen, il che mi ha insegnato a essere anche più comprensivo e tollerante nei confronti degli errori nostri e degli svarioni arbitrali (con le dovute eccezioni: ancora rimpiango che quaa famosa sedia l’abbia mancato, quell’infamone de Taylor).

Per dire, all’ennesimo tre contro due avversario innescato da un pallone perso a centrocampo da Bruno Peres, che non sapeva fare un passaggio a due metri e dunque pensava bene di farlo in orizzontale, al massimo mi concedevo un gesto con la mano come farebbe un anziano all’indirizzo di un bambino un po’ monello, o scuotevo la testa, talvolta sospiravo. Poi mi giravo verso di lei e la vedevo che rideva. Il nostro rapporto madre-figlio romanista, in versione ultimate.

(segue)


CREDITS, NOMI E RIFERIMENTI:

Anime giapponesi, che svolta fu quella, ragazzi. Che infanzia assai meno colorata e divertente sarebbe stata, senza.

A.S.Roma, o dell’amore eterno, a guisa di fiamma che brucia senza consumare.

Bruno Peres, terzino brasiliano. Affermare che non sappia fare un passaggio a due metri è senz’altro ingeneroso, che se giochi per anni in Serie A non puoi essere proprio scarso, diciamo. Epperò, quella certa sua tendenza, alle volte, a mostrare di non saper bene che fare col pallone fra i piedi, finendo per regalarlo agli avversari in situazioni che quelli bravi definirebbero “sanguinose”, è decisamente una sua caratteristica peculiare. In certe occasioni, vederlo giocare dalla parte tua ti fa stare un po’ in ansia, non lo si può negare.

eBay, dal vintage alle ultime novità, tutto a portata di mano. Pure troppo.

Heidi, romanzo di Johanna Spyri di fine Ottocento. Parla di una bambina orfana di entrambi i genitori che, dapprima, scopre il rapporto con un nonno burbero; dopodiché, viene trascinata a forza a fare da dama di compagnia a una ragazzina disabile in una casa di gente benestante; infine, ritorna dal nonno burbero insieme alla ragazzina disabile di cui nel frattempo è diventata grande amica, contribuendo a una guarigione miracolosa. Adattato, fra gli altri, nell’omonima e celeberrima serie TV di animazione giapponese, nella cui non meno celeberrima sigla italiana, cantata da Elisabetta Viviani, si parla di monti che sorridono (e se qualcuno venisse a dirvi che in realtà non è vero, che il verso recita “il tuo nido è sui monti” ma molti hanno sempre inteso “ti sorridono i monti”, fate loro ascoltare tutta la canzone, specie dal secondo minuto in poi), monti che sorridono, dicevamo, e caprette che fanno ciao. Buona l’erba del Vecchio dell’Alpe, sì sì.

In famiglia, romanzo di Hector Malot di fine Ottocento. Parla di una ragazzina orfana di padre che, strada facendo, diviene orfana anche di madre e infine ritrova il rapporto con un nonno burbero. Che è cieco ma, anche grazie alla sua nipotina, accetta di sottoporsi a un’operazione innovativa e torna a vedere. Secondo me, Malot e la Spyri si conoscevano e si confrontavano sulle trame.
O l’uno ha copiato un po’ dall’altra, poesse.

La La Land, film musicale con Emma Stone e Ryan Gosling che ha quasi vinto l’Oscar più importante.

Nadia – Il mistero della pietra azzurra, ha una parte centrale un po’ così, ma per il resto non tradisce le aspettative degli amanti di Hideaki Anno (sempre sia lodato per averci dato Evangelion), alla regia, e di sua maestà imperiale Hayao Miyazaki, autore del soggetto. Sempre sia lodato per ogni cosa che ci ha dato e per quelle che ancora verranno. Domo arigato gozaimashita.

Peline Story, adattamento animato giapponese del sunnominato romanzo di Hector Malot. Il cane Barone e l’asinello Palicare so’ proprio forti.

Anthony Taylor, arbitro internazionale. Un pessimo arbitro internazionale, sottolineo, al limite dell’incapacità conclamata e forse pure oltre, dai.
Ci ha rovinato una finale di Europa League e continua a fare danni un po’ ovunque, in Premier League (ah no, lo hanno retrocesso in Championship – che sarebbe la Serie B inglese – porello, chissà come mai, peccato continui a fare danni anche lì) come nelle partite delle coppe europee, per le quali, inspiegabilmente, ancora viene designato. La storia della sedia si riferisce a un tentativo di aggressione da parte di un tifoso romanista incazzato che, riconoscendolo al bar dell’aeroporto di Budapest, il mattino dopo una finale diretta malissimo che la Roma perse ai rigori, tirò una sedia di plastica all’indirizzo di coso, mancandolo. La violenza gratuita, anche solo tentata o, se è per questo, anche solo verbale, è sempre da condannare, non ci piove. Ciononostante, quel lancio – già che è stato effettuato – meritava una migliore esecuzione; così che, forse (fatta salva la giusta sanzione irrogata al lanciatore), l’incapace si sarebbe convinto a ritirarsi dal fare un mestiere che evidentemente non conosce e dedicarsi a cose a lui più congeniali e innocue, migliorando in tal modo la vita e l’umore di tutti, anche di se stesso.