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(Riassunto delle puntate precedenti: nuovo viaggio, stessa casa, un anniversario speciale).

Bene, mio caro Dave. Giunti a questo punto, immagino ti domanderai cosa mi avesse spinto, trent’anni fa, a compiere quel mio primo viaggio a Roma, se lo avessi programmato o se si trattò di un caso. Forse ti starai aspettando che io mi metta a raccontare i presupposti o gli antefatti.

Invece no.  

O, per meglio dire, è proprio ciò che – solo fino a qualche giorno fa – avevo in mente di fare. Anche perché c’entra una ragazza e so quanto l’argomento ti stuzzichi, vecchio rubacuori. Ma ci arriveremo. Fra non molto.
Ora, così sui due piedi, mi va di scriverti altro, di concentrarmi sul presente e sul tempo appena vissuto.

Eccomi, dunque, a mandarti qualche immagine da un tramonto di lunedì scorso (il giorno dell’anniversario) e dall’alba di stamattina, tutte prese dalla finestra del salotto di questo confortevole attico in cui ho trascorso gli ultimi dieci giorni, che sono stati bellissimi e che sono volati. Mentre mi accingo a lasciare la Città Eterna, ancora una volta mi soffermo ad ammirarne il cielo e ad assaporare il calore del suo abbraccio: in questo luogo magico io mi sento accolto, amato e coccolato. Sotto il suo cielo c’è sempre casa.
Peccato che anche stavolta la mia permanenza volga al termine; ma considera che un aspetto davvero buono e singolare, nel sentirmi a casa in un luogo che non è quello in cui risiedo abitualmente, è che in qualunque direzione io viaggi, fra qui e il Cuneese, non faccio altro che tornare a casa. In entrambi i sensi di marcia. Non trovi che sia fantastico? Io sì. Divino, oserei dire, come si diceva di Falcão.

Un accenno che sembrerebbe casuale ma che non lo è. Perché il particolare susseguirsi degli anniversari, in questo anno che mi riporta sul viale dei ricordi, sta facendo sì che io mi trovi a raccontarti questa mia storia al contrario, risalendo il corso degli eventi fino alla sorgente. Fino al momento primigenio. Fino all’unica volta in vita mia in cui vidi giocare Falcão, e mi persi molto di quegli anni grandiosi, poiché, appunto, di tutte le meraviglie che mostrò sul campo e di cui fece inebriare il popolo giallorosso, io lo vidi in un’occasione sola. Ma una volta fu sufficiente. Un Divino è per sempre. Come la Roma. Come Roma.

Ma sto divagando. Il senso di ciò che ti stavo dicendo è che, nel raccontare una storia, a volte la narrazione può seguire sentieri diversi da quelli che ci si era immaginati in precedenza, portando a soffermarsi un po’ su qualche dettaglio, esplorare meglio una radura, una valle, una pozza (tipo quella di Scott Landon, ah ah). A descrivere una stazione di posta, un riparo temporaneo lungo il cammino. A parlare del presente per poi riprendere il filo del passato.

Se in questi luoghi continuo a sentirmi a casa il merito è anche degli alberghi e delle case vere e proprie in cui ho abitato durante i miei soggiorni, e soprattutto delle persone che ho incontrato, in tempi recenti e meno recenti. Persone e case che è bello ritrovare a ogni nuovo viaggio.

È di loro che ti parlerò nei prossimi giorni. Così come della ragazza che – trent’anni fa – mi spinse ad approdare per la prima volta da queste parti (evviva!). Uniremo una cosa e l’altra e ogni curiosità sarà soddisfatta.

A presto quindi, mio vecchio amico.

Tuo Bill.


CREDITS, NOMI E RIFERIMENTI:

Il Divino | Roma (associazione sportiva, daje sempre) | Roma (città metropolitana)

e poi

Foto by Dario Angelo © 2024

La pozza delle parole è il luogo metaforico (ma nemmeno troppo, se avete letto la storia) in cui tutti noi gettiamo le nostre reti sperando di pescare le parole migliori, quando intendiamo parlare o scrivere di qualcosa. Lo sostiene Scott Landon, scrittore e defunto protagonista de La storia di Lisey di sua maestà Stephen King. Dico il vero e dico grazie (cit. da La Torre Nera).