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(Riassunto delle puntate precedenti: bello tutto, il lavoro, il capo che stressa, i chilometri, il nuovo stadio, la partita nel giorno dei sedici anni di Checco; ma, alla buon’ora, vogliamo parlare di Anna?)

Viso di porcellana, occhi grandi e luminosi, un sorriso capace di allietare la giornata più cupa. Anna è la ragazza più carina del quartiere (che poi è una frazione, ma non sottilizziamo) e, fin da giovanissima, raccoglie su di sé gli sguardi e l’attenzione di tutti. Anche la mia, si capisce. Soprattutto la mia.
Sono il suo più grande ammiratore.

Siamo ancora nella prima metà degli anni ’90.
Anna ha fra i quindici e i sedici anni (aridaje co ‘sti numeri, sempre gli stessi) ed io, sei di più di lei o giù di lì, sono un suo amico e confidente.
Anna non solo mostra di gradire la nostra frequentazione, ma lo sottolinea in modo esplicito e, alle volte, capita che mi sorprenda con uno slancio di sincero e giovanile entusiasmo.
Al quale io, ragazzo serio, maturo (sì come no), posato e responsabile, rispondo con studiata moderazione; senza dare a vedere, nell’immediato, quanto la cosa mi lusinghi. E faccio male. Pressoché ogni volta, nel momento in cui rispondo di solito è già tardi: la sua attenzione e il suo interesse sono evaporati, o si sono spostati verso un’altra direzione.

La storia del rapporto fra me e Anna in fondo è tutta qui: un balletto a volte divertente a volte goffo, irrisolto, fra due giovani che appartengono a mondi diversi, per età interessi usi e costumi, che si piacciono, almeno un po’ (lei a me tantissimo, io a lei dipende dai momenti e dalle situazioni), ma che non riescono a superare il confine sottile che separa un’intenzione da un gesto, un’idea dalla sua realizzazione. E che quasi mai si trovano in sintonia, nello stesso tempo e luogo, per condividere qualcosa che duri più a lungo di una fugace scintilla di vitalità.

Ti racconto un aneddoto che potrà illustrarti meglio il concetto.

È una domenica mattina di primavera, verso le undici e mezza. Lei ed io, come spesso ci capita, stiamo chiacchierando sul sagrato della chiesa che entrambi frequentiamo (e di cui io sono l’organista), appena usciti dalla messa.
A un certo punto, Anna si guarda intorno e mi dice: “Una giornata così bella mi mette voglia di fare un giro in bici”.

I suoi occhi, tornati subito fissi nei miei dopo quel veloce giro di orizzonte, e il suo sorriso – al quale vorrei rispondere come il quel famoso quadro di Hayez, se non che ci troviamo sotto gli occhi di decine di persone, famigliari di entrambi compresi e, soprattutto, io sono come sempre irrimediabilmente manierato – non lasciano dubbi sull’intendere quell’affermazione come una proposta.

Che, una volta tanto, raccolgo con una prontezza sorprendente anche per me:
– Ottima idea. Passo da te dopopranzo? Tipo alle tre, tre e mezza? – Le domando.
– Sì sì, volentieri!
– Ok, allora a più tardi. Ciao!
– Ciao!

All’ora convenuta sono sotto casa sua, in sella alla mia fedele bicicletta, mio unico mezzo di trasporto fino ad appena un paio d’anni prima. Smonto per suonarle in campanello, dopo un istante Anna scende e mi viene incontro con un’espressione incerta (ahia) solo per dirmi che si sta preparando per uscire a raggiungere altri amici. Le hanno telefonato poco prima per invitarla e lei ha risposto di sì. Mi guarda fisso con una sorta di neutro imbarazzo, per qualche secondo restiamo sospesi come in stallo. Non riesco a capire se si sia dimenticata del nostro appuntamento oppure se, con altrettanta semplicità, abbia optato per un’alternativa che le è suonata più allettante.
Da perfetto (idiota) gentiluomo nascondo la mia delusione e la tolgo dall’impiccio. Con tutta la nonchalance di cui sono capace in quel momento le dico qualcosa tipo “dai, facciamo un’altra volta, divertiti”. Le sorrido e la saluto. Lei mi sorride e mi saluta.

Rimonto in sella, mi allontano da casa sua, raggiungo la strada principale e inizio a pedalare con vigore. Spingo sui pedali come se volessi andare il più lontano possibile nel minor tempo possibile, supero un cavalcavia di slancio, acquisto velocità in discesa, affronto curve con l’impazienza di uno che vorrebbe tirare dritto fino al passo del Pordoi. Arrivo a un incrocio e mi fermo. Inizio ad accusare lo sforzo.

Proseguo oltre l’incrocio e mi rimetto a pedalare con foga, sempre più forte.
Non passa molto tempo e mi vedo costretto a rallentare fin quasi a fermarmi di nuovo: ho il cuore che mi martella in gola e i polmoni in fiamme. Decido che per quel pomeriggio mi sono sfogato abbastanza, giro la bici e torno indietro, procedendo con più calma. Quando arrivo a casa i miei non ci sono, ed è un bene perché non so cosa mi avrebbero detto, vedendomi in quello stato: lo specchio mi restituisce l’immagine di un me stesso completamente stravolto. Sembro di ritorno dalla Parigi-Roubaix, in realtà ho percorso appena una quindicina di chilometri, metà dei quali però a un ritmo folle, insostenibile per uno che non ci sia abituato. In piemontese esiste una parola che descrive alla perfezione il mio aspetto in quel momento: desfisimjà. Letteralmente, dis-fisionomizzato, privo di fisionomia.

Ancora accaldato e ansimante accendo la TV, scorro le pagine del Televideo e apprendo, lì in piedi accanto al tavolo del soggiorno, che abbiamo vinto a Brescia: 2-0 con reti di Caniggia e Mihajlović.
Almeno una gioia, quel pomeriggio, dai. Il risultato mi rimane impresso perché il Rigamonti è un campo ostico da cui, specie in quegli anni, la Roma torna sovente con le pive nel sacco. Una vittoria in trasferta, in una stagione così tribolata e perdipiù a Brescia, è qualcosa che nel frangente mi riappacifica un po’ con il mondo.

Solo diversi anni più tardi verrò a conoscenza del vero, imprescindibile dato storico insito in quell’incontro, vittoria a parte: nei minuti finali, con il risultato ormai al sicuro, il mister ha concesso a un talentuoso ragazzino biondo, poco più che sedicenne, il primo gettone in Serie A. Un dettaglio di cui non ho alcuna memoria, anche perché il servizio RAI dedicato a quella partita, ancora reperibile in rete, non ne fa menzione.

È dunque grazie ad Anna – sia pure con un contributo da parte sua del tutto involontario – se ricordo benissimo e ricorderò sempre dov’ero e cosa facevo il pomeriggio del 28 marzo 1993: il giorno dell’esordio di Checco.

Da tutto ciò si potrebbe trarre una morale: invece di pensare tanto ad Anna, avrei fatto meglio a dedicarmi di più alla Roma, traendone maggiori soddisfazioni. Con un presupposto simile, va da sé, nel nostro racconto il bello deve ancora venire.

(segue)


CREDITS, NOMI E RIFERIMENTI:

Scatti giovanili di Francesco Totti e immagine de Il Bacio di Francesco Hayez tratte dal web.

Anna | Checco | Roma (associazione sportiva), daje sempre

e poi

Brescia-Roma del 28 marzo 1993, un pomeriggio passato alla storia.

Claudio Paul Caniggia, attaccante argentino biondo e lungocrinito, noto come “Figlio del vento” in virtù della sua velocita. Rimase alla Roma due stagioni nelle quali giocò poco e segnò ancora meno, ma diede comunque un contributo alla storia calcistica di quegli anni.

Parigi-Roubaix, storica corsa classica del ciclismo, considerata piuttosto massacrante.

Passo Pordoi, celebre valico delle Dolomiti, storica tappa del Giro d’Italia.

Siniša Mihajlović, forte centrocampista (all’occorrenza difensore) serbo e roccioso allenatore, scomparso troppo presto. Da calciatore è stato una colonna della Sampdoria prima e della Lazio poi, di cui è diventato un alfiere. Non tutti ricordano però che a portarlo in Italia fu la Roma, nella quale giocò due stagioni; ebbi occasione di vederlo dal vivo in entrambe. Raccontò più volte di avere avuto un ruolo nell’esordio di Checco: non ci fu mai alcuna smentita o precisazione da parte degli interessati, dunque presumo che sia la verità.

Stadio Rigamonti di Brescia, teatro di scottanti sconfitte, ha saputo riservare qua e là qualche gioia. Non ci sono mai stato, a differenza di Brescia città: un luogo affascinante, ricco di arte, di storia e di romanità: non tutti sanno che Brixia era una delle più importanti città romane fin dai tempi di Ottaviano.