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Immagine da Il Trono di Spade tratta dal web

Caro Dave,

eccomi di nuovo a te, per raccontarti il resto della storia.
Eravamo rimasti ai primi giorni in ospedale.

I giorni diventarono settimane, le settimane divennero mesi: in tutto ce ne vollero quattro.

Dopodiché, mia madre tornò a casa in condizioni migliori di come ne fosse uscita quel mattino nefasto, addirittura camminando sulle proprie gambe, pur se malferma e necessitando di venire sorretta a ogni passo. Un risultato notevole che, solo poche settimane prima, sembrava impensabile.
Tuttavia, pur mostrandosi migliorata ma non proprio come nuova, diciamo, fu chiaro che il cambiamento che l’aveva colpita sarebbe stato permanente.

Il grave malore che per poco non se l’era portata via ne aveva compromesso le funzioni motorie e quelle fonetiche: restò lucida, ma incapace di esprimersi se non con monosillabi ed esclamazioni tipo “ecco” o “uffa”. Per fortuna, dato il mestiere che faccio, di codice binario e di processi a singolo step ne mastico, e sono capace pure di molta pazienza, per cui riuscivamo comunque a capirci.  

Fu altrettanto chiaro che quel cambiamento, oltre che permanente, avrebbe coinvolto tutti i membri della nostra famigliola di tre persone. Che poi eravamo già da tempo 2+1, perché io mi ero staccato per conto mio; senza peraltro andare molto lontano, come già detto in precedenza, giusto un piano e due rampe di scale. Cosa che tornò molto utile il giorno in cui mia madre quasi morì, perché fui il primo che il “nonno” poté chiamare per un aiuto immediato in attesa dei soccorsi veri. Ma che si rivelò un’arma a doppio taglio, dopo, perché mi trovai incastrato in una situazione più grande di noi.

Il mio vecchio, devi sapere, è una testa dura di proporzioni colossali, nonché un tirchio di proporzioni galattiche. In quei quattro mesi di assistenza a mia madre, fra ospedali e cliniche, si era messo in testa che tutto sommato ce la potesse fare da solo, a occuparsi (appunto) di mia madre, la quale – se pur ancora lucida, ma non più autosufficiente – avrebbe avuto bisogno di supporto continuo per il resto della vita.
Il non trascurabile dettaglio che in quelle strutture avesse potuto avvalersi non diciamo di me, che pure mi alternavo con lui, ma del personale medico e infermieristico – una gran bella differenza di cui a casa nostra non avremmo più goduto, perbacco – non pareva turbare il suo convincimento.

Fu così che, fin dal primo giorno in cui mia madre tornò a casa, l’ordine di scuderia fu chiaro: non abbiamo bisogno di nessuno che venga qui a ficcare il naso, furono le parole del “nonno” (e non aggiunse “che poi lo dobbiamo pure pagare” ma non era necessario: si trattava di un discorso che avevamo già affrontato e conoscevo il suo pensiero in merito). “Ce la faccio da solo”, concluse. Ma con il mio aiuto, ovviamente.
Io che allora – come già sappiamo – non avevo una relazione né un’occupazione e che, nel frattempo, fra ospedali e cliniche, avevo consumato tutte le energie fisiche e mentali ritrovate con così tanta fatica solo pochi mesi prima. In quel momento me stavo già di nuovo quasi a sentì male e non fui in grado di oppormi. Fu come se avessi preso il Nero e, al pari di Jon Snow e compagni, non fu per mia scelta.

(segue)


CREDITS, NOMI E RIFERIMENTI:

Jon Snow (interpretato da Kit Harington) è uno dei personaggi principali de Il Trono di Spade, opera in cui compare l’espressione prendere il Nero.