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(qui la puntata precedente)Ribloggo da Hazen Mavi, per ovvie ragioni sentimentali e di contenuti 🙂
Era mattina, c’era aria di pioggia, e mi trovavo in uno dei miei luoghi di perdizione preferiti. Un’enorme libreria su tre piani, con le pareti interamente di vetro, situata nell’atrio della stazione Termini.
Una posizione davvero strategica. La prima cosa, bella grossa, che uno nota entrando in stazione. L’ultima che incontra prima di uscirne, quanto meno dall’uscita principale.
Di solito vado lì in cerca di qualche buona lettura. O di un’avventura galante.
A volte, riesco a ottenere entrambe. Sareste stupiti di sapere quante donne sole a annoiate si aggirino fra quegli scaffali, colmi di libri di ogni genere e specie, con l’intento di curiosare non fra le copertine ma tra la fauna locale. Anche solo per due chiacchiere, si capisce. Ma – nemmeno così di rado – non solo per quello. E io, pur con i miei cinquant’anni suonati, i capelli ingrigiti e una gamba offesa, lì con il mio bastone appeso all’incavo del braccio, mentre studio una rara prima edizione di qualche autore americano o spagnolo, che ci crediate o no, riesco quasi sempre a portare a casa un risultato. Spesso superiore alle mie aspettative.
Non so come né perché, ma è sempre stato così fin da ragazzo: attraggo le donne come mosche al miele. Una di esse, di recente, mi aveva detto che secondo lei dipendeva dalla mia somiglianza con Jeffrey Dean Morgan.
Non avevo idea di chi fosse costui, così mi sono documentato on-line.
Un attore americano di secondo piano, dal viso simpatico e con un’aria tra il piacione e l’impacciato; se siete pratici di serie tv, il nostro amico ha riscosso notorietà nei panni di un paziente innamorato di una specializzanda, in alcune stagioni di Grey’s Anatomy, e poi come protagonista in Magic City. Ha anche interpretato Il Comico in Watchmen di Zack Snyder. Un film che non mi è piaciuto granché, ma gli attori erano bravi.
Insomma. Per somigliarmi, direi, sì, abbastanza. Non sembriamo gemelli, ma ora che anch’io porto la barba sale e pepe, siamo piuttosto simili. Del resto, è solo di due anni più giovane di me.
Che dire, preferirei mi trovassero somigliante a George Clooney, anche la versione extra-large di Syriana mi andrebbe più che bene. Ma che ci posso fare. Se una certa similitudine con Jeffrey come-si-chiama mi procura attenzione femminile, ben venga. Hi! I’m Jeffrey! What’s your name?
Non so se fosse per questo motivo, oppure per il mio fascino innato.
O, in ultima analisi, perché ero l’unico maschio adulto in tutto il piano.
Fatto sta che, quel mattino, avevo adocchiato una creatura davvero splendida, alta mora riccia, un paio di gambe che non finivano più. Non doveva avere più di 25 anni, la pelle caramellata di una sirena caraibica. Non credevo davvero di avere delle chance di agganciarla, certe sfide sono troppo ardite anche per me. E invece, quando si dice il destino: fu lei ad agganciare me.
Mi si avvicinò, lì nel reparto libri in lingua originale, e gratificandomi di un lieve sorriso e uno sguardo vellutato di quei suoi occhioni da pantera, fece scorrere il dito, con fare distratto, su un cofanetto che non avrei notato.
– Questi li ha mai letti?
Me lo domandò in inglese, ma con un delizioso accento ispanico.
Io sfoggiai la mia migliore espressione alla George Clooney – travestito da Jeffrey Dean Morgan – e le risposi che no, non avevo mai avuto l’occasione. Mi rivolsi a lei in perfetto spagnolo, cosa che mi parve compiacerla molto.
Da quel mio approdo giovanile a Città del Messico, senza conoscere una sola parola della lingua locale, ho fatto un po’ di strada. Ora parlo un castigliano fluente e privo di inflessioni yankee. Decisamente migliore del mio italiano, sotto questo aspetto.
Chiacchierammo ancora un po’, lei mi suggerì di comprare quel cofanetto di cinque volumi in edizione paperback, che veniva via per molto meno di quanto fossi disposto a spendere solo per farle piacere. L’autore era un inglese a me sconosciuto, ma non aveva alcuna importanza. Dopo qualche minuto, uscimmo insieme dalla libreria. Io, il cofanetto e lei. Ci prendemmo un caffè in un bar appena lì vicino, nell’atrio della stazione, fra una chiacchiera e l’altra venne fuori che io abitavo a Roma e lei parve gradire molto la notizia. Mi domandò dove di preciso, le risposi che se lo desiderava glielo avrei mostrato. Uscimmo sul piazzale, salimmo su un autobus e nel giro di quindici minuti eravamo a casa mia. Il resto della mattinata trascorse in un modo che lascio alla vostra immaginazione, e fu davvero piacevole. Piacevole al quadrato.
Un paio d’ore dopo, scendemmo lungo il viale, a pranzare nella zona più prossima al Tevere, la più caratteristica e ricca di locali di ogni tipo e per tutte le tasche. Le mie tasche quel giorno erano discretamente fornite, così la portai da Trilussa. Feci un’ottima figura, e per l’ambiente e per i consigli che le diedi su cosa ordinare.
Al momento di pagare il conto, non ebbe nulla da obiettare sul fatto che offrissi io. Detesto quelle donne che insistono per fare a metà, come se lasciarsi offrire un pranzo, o una cena, da un uomo che conoscono appena, le qualificasse come delle profittatrici. O delle zoccole. Un po’ di rispetto dei ruoli e della mia galanteria, che diamine.
L’accompagnai alla fermata del bus, mi accertai che prendesse quello giusto e prima che salisse ci salutammo come due vecchi amici. Davvero incredibile, la familiarità che si instaura tra due perfetti sconosciuti, dopo aver condiviso un letto e un pasto. Tornai a casa, senza nemmeno il numero di telefono di quella ragazza, che tanto sapevamo entrambi non mi sarebbe mai servito.
Né a lei sarebbe servito il mio.
Di lei, ora che è passato qualche giorno, conservo solo il nome, Susana, il ricordo dei suoi grandi occhi neri, del suo sorriso soddisfatto, del suo corpo stupendo, e un vago sentore del suo ottimo profumo sulla federa del mio cuscino. Non so nemmeno di preciso da dove venisse. Nessuna complicazione, nessun equivoco, nessuna falsa aspettativa. Una delle migliori avventure della mia vita.
In realtà, di quell’incontro conservo anche un’altra cosa. Il cofanetto-raccoglitore con i suoi cinque volumi in edizione economica. Di un autore inglese a me sconosciuto. E mi domando, ora, come sia possibile che lo fosse rimasto fino a quel momento. Nella mia vita ho letto di tutto, scritto di tutto, recensito decine di saggi e romanzi e ne ho anche tradotto qualcuno. E non conoscevo Douglas Adams. Che gli dei della fantascienza mi perdonino, ignoravo il suo arguto geniale lavoro, la pentalogia della Guida galattica per gli autostoppisti. Quel pomeriggio, dopo l’assai piacevole mattinata e l’ottimo pranzo, ero allegro e in pace con me stesso e con il mondo, e non avevo alcuna voglia di lavorare. Così mi misi a leggere il primo dei cinque libri del cofanetto. Mi misi a leggere The Hitchhiker’s Guide to the Galaxy in lingua originale, e non smisi fino alle cinque del mattino, quando completai l’ultima pagina del quinto e ultimo libro. Dopodiché, illuminato dall’aver appreso il messaggio di Dio all’umanità (non lo indovinereste mai), mi concessi un paio d’ore di sonno prima di colazione.
Fra l’infinito numero di cose che mi piacquero da matti nell’opera di Adams, ce ne fu una in particolare. La storia del numero 42, la risposta alla domanda fondamentale sulla vita, l’universo e tutto quanto. Si, ma, qual’era la domanda? I romanzi non lo rivelano, i protagonisti la inseguono a lungo senza mai trovarla.
Feci qualche ricerca, e scoprii che il buon Douglas aveva solo voluto giocare, quel numero se l’era inventato, non significava nulla. O meglio, questo è ciò che disse.
Ma io non credo sia la verità. Non tutta, almeno. Penso che Adams, nella sua sconfinata irresistibile arguzia, si sia divertito sì a giocare con i propri lettori, ma anche a lanciar loro un messaggio subliminale. Suggerendo l’idea di trovarsela da se stessi, la domanda fondamentale. La propria, singola, univoca domanda; sulla propria vita, il proprio universo. E tutto quanto.
Una domanda la cui risposta sia 42, è ovvio. Sennò, che gioco sarebbe?
O forse sono io che sono un po’ svitato, vai a sapere. Ma avevo trovato quel filo, e mi ci attaccai. Provai a pensare a cosa potesse significare per me il numero 42. E una delle prime cose che mi venne in mente fu la mia età.
I miei quarantadue anni. Era il 2006, e ci fu un’estate di straordinaria fortuna e follia. Nonostante i miei guai fisici, da cui con molta fatica mi stavo appena riprendendo. L’estate in cui mi stabilii a Roma in modo definitivo, trovai quell’appartamento, raggiunsi il mio equilibrio. L’estate in cui la nazionale italiana di calcio vinse un Mondiale inaspettato, e al ritorno sfilò per le vie di Roma e al Circo Massimo. Che notti furono quelle. Pur vivendo in Italia non seguivo molto la nazionale, mi interessavano di più le questioni di club.
Ma in quella squadra c’erano tre dei “miei” ragazzi. Miei e del mio amico Bill. Dunque, non mi persi una sola partita. I loro nomi? Daniele. Simone.
E Francesco. Che pochi mesi prima della kermesse pallonara, di cui era una delle stelle più attese, venne toccato duro da un avversario e si ruppe tutto. Come me. Stessa gamba, stessa caviglia. Solo che la sua si ruppe in pezzi più grandi, e riuscirono a rimettergliela in sesto molto in più in fretta, e di gran lunga molto meglio, di quanto sia stato fatto col sottoscritto.
E al Mondiale ci andò, anche se in ritardo di condizione, e non solo lo giocò e lo vinse anche lui, ma fu uno dei protagonisti. E la sua faccia felice sotto il cielo di Berlino, in quella notte di luglio, non me la potrò scordare mai.
Quella notte stessa ne scrissi un pezzo, ma una volta finito decisi che era troppo personale e preferii non inviarlo a nessun giornale, a nessuna rivista.
A nessuno, fuorché a lui. Non fu difficile, avevo i contatti giusti. Qualche giorno dopo mi telefonò per ringraziarmi, quasi non ci credevo. Quando glielo raccontai, Bill ne fu molto invidioso. E adesso, magari, vi starete chiedendo come sia possibile, che un anglo-americano non solo sia appassionato di calcio italiano, ma sia pure romanista. Io vi risponderei con un’altra domanda: perché, è mai possibile essere altro? Non per me, non in questo universo.
Durante il mese che durò il mondiale tedesco del 2006, in quell’estate folle e fortunata, conobbi Teresa. E me ne innamorai perdutamente. Ma anche quell’estate, pur così folle e fortunata, come tutte le altre estati prima di essa, un giorno finì. E anche Teresa, come tutte le altre che avevo amato prima di lei, finì che mi spezzò il cuore. Ma fu l’ultima volta.
Ecco, ripensando all’estate dei miei 42 anni, ho trovato la mia domanda fondamentale, sulla mia vita, il mio universo, il mio tutto quanto.
Ho trovato il filo conduttore che lega la storia della mia esistenza; dunque ora so cosa scrivere, di me, e come farlo. Il taglio, le inquadrature. Tutto.
Già, ma… qual’è, in definitiva, la domanda? La mia personalissima domanda fondamentale?
Ah, well. Per saperlo, dovrete leggere il seguito.
Spero che farlo non vi dispiacerà. E che alla fine, chissà, anche voi troviate la vostra, di domanda.